Le pitture rupestri sono fra gli esempi più noti di antica pittura su roccia aborigena: la “Bradshaw art” – dal nome del loro scopritore, un naturalista dell’800 – conserva un’immediatezza unica e colori vivacissimi, anche se i disegni risalgono ad almeno 40mila anni fa. Il loro segreto?
Pitture rupestri vive
Un “pigmento vivo”. Lo svela il professor Jack Pettigrew, dell’Università del Queensland, in Australia.
Che, dopo aver studiato questi esemplari di arte rupestre nella regione di Kimberley, è giunto alla conclusione che a donare la particolare brillantezza alle pitture aborigene siano batteri e funghi.
Una sorta di “biofilm” di microrganismi pigmentati che nel corso di millenni si è sovrapposto e sostituito alla pittura originari, conservandola e rendendola unica.
La propensione all’arte delle antiche popolazioni Sapiens è cosa nota, le loro grotte erano una sorta di diario dove annotavano gesta memorabili o le strategie di caccia.
Addirittura, in base a nuovi elementi rinvenuti di recente, le stesse ossa rappresentavano un supporto solido ideale, facile da incidere e trasportare, dove potevano riportare indicazioni fondamentali come ad esempio la mappa astrale della cintura di Orione incisa in un osso di mammuth ritrovata nella valle dell’Ach .
Ora, cosa rappresentasse per loro quella particolare costellazione è tutto da definire ma resta il fatto, che già agli albori della nostra civiltà, il genere umano ha sentito la necessità di memorizzare in qualche modo il proprio vissuto per ricordarlo a se stessi e soprattutto ai posteri.


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