Fotografia ecco il super sensore QIS da un miliardo di pixel da Eric Fossum

Fotografia ecco il super sensore QIS da un miliardo di pixel da Eric Fossum

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Sensore QIS, ritrarre la realtà, un chiodo fisso

L’origine della fotografia, collocabile nella prima parte del XIX secolo, ha permesso all’uomo di intravedere un nuovo modo per comunicare e fissare la realtà che lo circondava, utilizzando materiali di ogni tipo. Sperimentazione, fortuna e tanta, tanta tenacia hanno portato alla realizzazione delle prime immagini stabili nel tempo, fino ad arrivare ai giorni nostri attraverso passaggi epocali.

Comune denominatore di ogni singolo passo nell’evoluzione della fotografia è il massiccio ricorso alle conoscenze di chimica e fisica del tempo in cui questi passi avvennero: la prima fotografia documentata (1826) era frutto di un’esposizione di otto ore su una lastra di rame spalmata di pece di Giudea (bitume e argilla). Di ben cento anni prima (1727) è la scoperta del primo materiale fotosensibile quando Johann Heinrich Schulze, un chimico tedesco, notò che un composto di argento, carbonato di calcio e acido nitrico anneriva le pareti della bottiglia in cui era contenuto, una volta esposta alla luce.

László József Bíró inventò la penna a sfera (chiamata anche biro, il suo cognome) alla fine degli ’30 del 900; la storia afferma che fu l’osservazione di alcuni bambini che giocavano a biglie e il passaggio di una di queste attraverso una pozzanghera, lasciando una striscia bagnata, a dagli l’idea. Un’invenzione frutto di un’intuizione del momento, questa come molte altre nella storia. Nella storia della fotografia dal punto di vista tecnico no, nulla è frutto di intuizione del momento. Le cose sono sempre state più complicate e tutti coloro che hanno apportato modifiche o migliorie erano bene o male studiosi e/o conoscitori della scienza, poiché già in possesso di nozioni di fisica e chimica per qualche motivo. Certo, a volte è stato indispensabile anche quell’ingrediente magico chiamato fortuna, ma certamente il processo fotografico e di stampa si è evoluto di pari passo con le scoperte scientifiche, senza le quali non saremmo andati lontani.

Ulteriore prova è il desiderio atavico dell’uomo di fissare in qualche modo la realtà che lo circonda, come testimoniano le incisioni che ritraggono scene di caccia nelle grotte di Lascaux, in Francia, risalenti a quasi 18000 anni fa. Si pensi inoltre alla pittura, con quadri che ritraggono la realtà in maniera realistica: parliamo di Leonardo, Raffaello e poco prima di loro i fiamminghi come Jan van Eyck, e stiamo parlando del XV secolo d.C.

Eppure la fotografia arriva centinaia e centinaia di anni dopo, pur esistendo il desiderio di ritrarre la realtà da decine di migliaia di anni, in tutti i modi in cui era possibile.

 

Dall’argento al silicio

Tornando in periodi più vicini a noi si è consolidato, per oltre un centinaio di anni, l’utilizzo di macchine fotografiche che sfruttavano come elemento sensibile le pellicole, dalle più rudimentali a quelle più evolute, con forme e rapporti base altezza differenti. Ad accomunarle tutte gli alogenuri d’argento, responsabili in gran parte del fissaggio dell’immagine sulla pellicola stessa.

A rimescolare le carte, o più che altro a ribaltare l’intero tavolo, è arrivata la rivoluzione digitale. Il primo prototipo di macchina fotografica digitale è stato realizzato da Steven J. Sasson, un giovane ingegnere assunto da Kodak: era l’anno 1975 e consisteva in uno “scatolotto” con obiettivo preso da una vecchia videocamera, sensore CCD Fairchild da 0,01 Mpixel (100×100 pixel), archiviazione su audiocassetta e sistema separato per la visualizzazione attraverso televisore. Un progetto sottovalutato e scartato da Kodak, che capirà troppo tardi di aver commesso un grave errore.

Infatti è ben oltre gli anni 2000 che la fotografia digitale è diventata davvero di massa, a disposizione anche (e soprattutto, in termini di immagini prodotte) dei possessori di smartphone. Attualmente sono miliardi i sensori in circolazione su altrettanti apparecchi in grado di scattare fotografie, realizzati con tecnologia CMOS. Uno dei padri e degli sviluppatori di questa tecnologia è Eric Fossum, fisico e ingegnere statunitense, nonché docente presso la Thayer School of Engineering di Dartmouth, New Hampshire.

La corsa ai megapixel e alla qualità sempre più elevata è semplice evoluzione tecnologica (i CMOS inizialmente erano sensori economici e producevano immagini di bassa qualità rispetto ai CCD), ma la tecnologia alla base del tutto è in gran parte merito suo. Ecco perché, quando Eric Fossom parla, il mondo che ruota intorno alla tecnologia legata all’immagine si ferma e ascolta con molta attenzione.

E quello che ha detto in questi giorni suona come rivoluzionario.

Insieme al dottorando Jiaju Ma, Mr. Fossum ha affermato di essere al lavoro sul dopo-CMOS, per la precisione su un nuovo sensore QIS, acronimo di Quanta Image Sensor. A mettere fermento nel settore è quel miliardo di pixel che Fossum promette, a parità di dimensioni con un normale sensore CMOS, ma soprattutto una sensibilità alla luce senza precedenti, tale da poter registrare il singolo fotone.

 

Dal CMOS al sensore QIS?

L’annuncio della nuova tecnologia giunge dopo tre anni di lavoro intenso, al quale il dottorando Jiaju Ma e Eric Fossum hanno dedicato gran parte del loro tempo per giungere ad un proof of concept con ottimi presupposti di realizzabilità. Tre anni quindi a mettere le basi teoriche e pratiche a livello di programmazione, algoritmi e gestione del flusso dati generato da quello che sarà un sensore da circa un miliardo di pixel.

Non bisogna commettere l’errore di pensare ad un semplice rimpicciolimento della tecnologia attuale, facendo correre subito la mente a potenziali problemi di rumore nelle foto e cose simili. Mettere un miliardo di pixel al posto di milioni sulla stessa superficie ha una motivazione ben precisa, che è stata il punto di partenza di tutto lo studio: catturare il singolo fotone, e non le decine di migliaia di fotoni che il singolo fotodiodo “cattura” con le tecnologie attuali.

L’obiettivo del sensore QIS

Lo scopo primario è ottenere sensibilità elevatissime e per certi versi insuperabili nel vero senso della parola: essendo il singolo fotone, di fatto, la più piccola unità di luce, qualora il progetto riuscisse nel suo intento sarebbe impossibile andare oltre. Ecco un passaggio del documento pubblicato dagli scienziati:

“Light consists of photons, little bullets of light that activate our neurons and make us see light. The photons go into the semiconductor and break the chemical bonds between the silicon atoms and when they break a bond, an electron is released. Almost every photon that comes in makes one electron free inside the silicon crystal… We were able to build a new kind of pixel with a sensitivity so high we could see one electron above all the background noise. These new pixels are able to sense and count a single electron for the first time without resorting to extreme measures.

We deliberately wanted to invent it in a way that is almost completely compatible with today’s CMOS image sensor technology so it’s easy for industry to adopt it.”

Traduzione: “La luce è costituita da fotoni, come piccoli “proiettili di luce” che i nostri neuroni percepiscono appunto come luce. I fotoni raggiungono il semiconduttore e rompono i legami fra gli atomi di silicio, che rilasciano elettroni. Praticamente ogni fotone è in grado di “liberare” un elettrone dai cristalli di silicio. Siamo in grado di realizzare un nuovo tipo di “pixel” con una sensibilità così elevata da poter distinguere e registrare il singolo elettrone. Questi nuovi pixel sono in grado di captare e contare i singoli elettroni per la prima volta, senza la necessità di strutture più complesse.

“Abbiamo lavorato espressamente per rendere la nuova tecnologia completamente compatibile con l’utilizzo e la gestione degli attuali CMOS, in modo da rendere molto facile il passaggio al sensore QIS da parte delle aziende attive nel settore”.

Insomma, il sensore QIS (Quanta Image Sensor) sarà costituito da miliardi di pixel, che i ricercatori hanno battezzato jots proprio per far capire che sono diversi dai fotodiodi “normali”. Ogni jot è in grado di registrare anche un solo elettrone, staccatosi dal silicio dopo essere stato raggiunto da un fotone. Questo non significa che ogni jots sarà in grado di registrare uno e un solo elettrone (anche perché, per quanto piccoli siano i jots, gli elettroni in quella superficie saranno sempre e comunque moltissimi), ma che la sua sensibilità sarà così elevata da registrarne anche uno solo.

Uno dei problemi pratici è la mole di informazioni da elaborare da parte della circuiteria che sta fra il sensore e la generazione dell’immagine: si parla di un possibile terabit di dati al secondo, nel peggiore o migliore dei casi, a seconda se si prende in considerazione il carico sul fronte storage o quello dei benefici in fatto di risoluzione e precisione dell’immagine, anche nel buio attualmente più “infotografabile”.

Nella pratica questo si traduce in una sensibilità enormemente superiore a quella di qualsiasi sensore CMOS, ma al contempo il sensore QIS sarà sviluppato per sostituire il CMOS in maniera indolore per le aziende. Le prime applicazioni pratiche per il sensore QIS è negli ambiti medici e industriali (già attive le collaborazioni con i colossi del settore) oltre alla microscopia, ma in un secondo tempo non è per nulla escluso l’utilizzo  negli apparecchi fotografici di tutti i giorni.

Sarà rivoluzione? Presto per dirlo, poiché la tecnologia deve ancora arrivare a realizzare jots così piccoli ma gli studi sono molto promettenti. Quando? Certo non prima di una decina di anni, ma se guardiamo a cos’era il mondo della tecnologia 10 anni fa, nessuno può escludere che tutto sia più o meno possibile.

di Alessandro Bordin

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